A closeup shot of the waving flag of Australia with interesting textures

Mercoledì Facebook ha creato un ban su tutte le notizie e le pagine dei giornali australiani presenti sulla piattaforma, impedendo agli utenti di vedere i post che quest’ultime pubblicavano sul social: questa mossa è una rappresaglia contro una proposta di legge che costringerebbe il gigante tech a pagare i giornali per i loro contenuti. 

Quali sono le restrizioni su Facebook

Le restrizioni vietano sia l’accesso agli utenti australiani a qualsiasi contenuto notiziario sia la condivisione di articoli da parte degli individui sul social, bloccando inoltre le pubblicazioni dei quotidiani del paese in tutto il mondo. 

Giovedì 18 Febbraio una visita a una pagina come il Sydney Morning Herald e l’ Australian non mostra nessun post, presentando questi profili scevri di qualsiasi pubblicazione. L’ironia della sorte è che il ban ha bloccato anche dei profili che non erano strettamente collegati alle testate giornalistiche, come per esempio quelli del Ministero della Salute che prevedeva informazioni sul coronavirus e i vaccini, il Bureau of Meteorology appartenente al governo, siti di satira e persino la pagina di Facebook stessa! 

La decisione drammatica giunge dopo mesi in cui la firma tech aveva minacciato che avrebbe bloccato le news sul suo sito in Australia, a meno che il governo non avesse ritirato la proposta di legge, una modifica al Consumer Act 2010, che prevedeva una compensazione monetaria obbligatoria da parte di Facebook e Google a tutti gli editori che apparivano sull’app. Scott Morrison, premier australiano, ha definito Facebook “arrogante” e pericoloso, considerando che ha persino oscurato le notizie riguardanti la pandemia, essenziali al suo contenimento, e ha commentato: “Sono in contatto con i leader di altri paesi, non ci faremo intimidire.”

Le opinioni

Axes Bruns, professore di comunicazione alla Queensland University of Technology’s Digital Research Center ha definito la presa di posizione “una mossa estrema” affermando che “ sembra che il governo abbia cercato di provare il bluff di Facebook…scoprendo poi che non era un bluff.”

Facebook ha rilasciato un commento mercoledì in cui scriveva che la legge “ fondamentalmente mal interpreta la relazione tra la nostra piattaforma e gli editori che lo usano per condividere le notizie”, confermando la correlazione tra il ban e la legislazione. 

Ciò che però risalta di più è che la legge è stata vista da Google sotto tutta altra forma: non solo la compagnia non ha protestato ma ha anche annunciato un accordo pluriennale con News Corp, appartenente a Rupert Murdoch, che al momento fornisce il 65% di lettori di giornali stampati in Australia e controlla come shareholder vari canali televisivi e radiofonici nel paese. Questo accordo, che comprende anche altri gruppi di stampa australiani, mostra come Google sia disposta a pagare e a seguire la legge, almeno in parte, per evitare uno scenario disastroso che si verificherebbe se smettesse di avere le notizie nel suo sito.

Timothy Dwyer, professore associato di comunicazione all’Università di Sydney, evidenzia come Google veda un vantaggio nella cooperazione, nella speranza, forse, di riuscire a evitare così le regole più strette previste dalla legislazione e di creare un modello ad hoc per la sua posizione. Facebook, invece, è più preparato ad affrontare le conseguenze che ci saranno adesso.

Tuttavia la legislazione non nasce dal capriccio della classe politica, bensì dalla necessità di trovare un rimedio ai ricavi della stampa provenienti dalla pubblicità digitale, in diminuzione a causa del monopolio di Google e Facebook ( una stima mostra che l’80% dei ricavi appartiene a loro due). 

Google e Facebook: due strategie opposte

Google aveva minacciato a Gennaio di ritirare il suo motore di ricerca dall’Australia, ma adesso ha scelto la via più conciliatoria. La compagnia californiana vuole infatti diventare la piattaforma che fornisce le notizie più recenti e più complete, un’ambizione che potrebbe essere raggiunta con il contratto firmato con NewsCorps. I suoi search ads sono la contribuzione maggiore ai profitti annuali dell’azienda, nonostante rimanga ignota la quantità che deriva dai click sulle notizie. Uno studio del 2019 stimava un ricavo di 4.6$ miliardi al mondo dall’industria delle notizie nel 2018 grazie al digital advertising: all’epoca Google aveva definito le stime “inaccurate” e aveva detto che le sue piattaforme rimandavano a altri siti almeno 10 miliardi di volte al mese. 

La situazione finanziaria di Facebook è opposta: nella sua pubblicazione di mercoledì la compagnia ha dichiarato che le notizie corrispondono a meno del 4% del contenuto che appare nei feed. Fiona Martin, una professoressa associata all’Università di Sydney, ricercatrice nell’ambito del giornalismo digitale e i suoi regolamenti, ha dichiarato che Facebook non sarebbe interessato all’industria delle notizie, ma si starebbe addirittura ritirando da questo settore.

La differenza tra le aziende è sostanziale: Mel Silva, direttrice di Google Australia, si è presentata alla discussione sulla legge promossa dal senato australiano nonostante fosse incinta di nove mesi, mentre Will Easton, direttore di Facebook Australia, non si è neanche presentato, mandando al suo posto due rappresentanti delle pubbliche relazioni. “Google era preparato a sedersi e negoziare, cosa che non è mai avvenuta con Facebook in nessuna indagine governativa” continua Martin. 

Il codice australiano potrebbe creare un precedente per gli altri paesi, in primis EU e Canada, e per come essi si relazionano con queste compagnie tech nell’ambito delle notizie. Ogni paese reagirà in maniera diversa a seconda dei suoi interessi e priorità. 

Al di là della questione legale però risulta evidente come l’azione di Facebook sia molto più che una ripicca all’interno di una controversia inter partes, ma rappresenti una vera e propria minaccia alla buona informazione e possibilità di sapere cosa sta succedendo nel mondo e nel proprio paese. Benedetta Brevini, giornalista e professoressa associata all’Università di Sydney, ha commentato come il fatto in se che una compagnia abbia impedito a milioni di persone di accedere a informazioni fondamentali e di interesse pubblico mostra quanto potere ha questo gigante statunitense a livello globale. Ma, ha continuato, mostrano anche l’importanza di regolare questi colossi e dunque le ragioni per cui il governo australiano ha cominciato questa guerra in primo luogo. “Facebook sta testando non solo il governo ma anche gli altri paesi. Sta controllando come questi reagiscono alle sue decisioni.”

E ora?

Il potere dei social media è, ormai, evidente, e ha recentemente causato azioni di grande significato politico, come quando Twitter ha bloccato l’account di Donald Trump. Facebook, Twitter, Google e le altre compagnie si trovano di fronte a una svolta: decidere se promuovere la libertà di parola o regolare il flusso di dati e messaggi scambiati sulle loro piattaforme. Ma chi sceglie cosa mostrare e come farlo? Di fronte agli ultimi sviluppi della questione australiana non si può non notare che Facebook non solo si comporti come un elemento sovra-nazionale che non accetta paletti posti da nessuno, ma eviti inoltre di assumersi le sue responsabilità di fronte agli annali problemi delle sue app, in primis l’incitamento alla violenza e all’hate-speech che avviene tramite i suoi social.  

Si apre dunque una nuova fase, quella in cui Facebook lascia il suo ruolo da “agorá”, dove ognuno può dire la sua e condividere quello che vuole, per diventare un censore. Ma la domanda che sorge spontanea è: quali saranno i prossimi paesi e i prossimi ambiti in cui questo succederà? Se questa volta parliamo di notizie e giornali australiani non è detto che la polemica non si allarghi a altre nazioni e ad altre industrie che sfruttano i social network e il web in generale. I prossimi mesi saranno fondamentali per lo sviluppo di queste contese legali e decisivi nel affermare gli Stati o le multinazionali come vincitori.

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